Itinerario/gita

Itinerario Extra Urbano

Descrizione
Colle Tre Croci
Il colle Tre Croci (m.523 s.l.m), una volta chiamato Giubino, sovrasta da settentrione l’abitato di Calatafimi. Dalla sua cima, oggi ricoperta da un fitto bosco di pini, nelle belle giornate si gode una vista amplissima. L’attuale nome di questo monte deriva da una capella eretta nel 1663 sulla cima e dedicata al SS. Crocisfisso. Nel piccolo edificio sacro venne riprodotto il monte Calvario. La cappella venne sostituita nel XVIII secolo da una piccola chiesa di circa quattro metri di lato, di cui oggi si scorgono i resti. Una vecchia leggenda narra che “alcune erbe rare, che nascono sul monte Giubino o Tre Croci, tingano in oro i denti degli armenti. Ed è perciò che quella montagna ha preso il nome di Montagna d’oro. Il fulgore del prezioso metallo, che affascina la fantasia popolare, appare in una tradizione alcamese – simile a quella calatafimese – secondo la quale il nome di “Munti d’oru” è associato a quello del monte Bonifato, e “si suppone che vi esista dell’oro, perche le pecore che vi pascolano presentano tracce d’oro tra i denti”.
“Quannu facìa mmeeee, si ci virìano li denti comu fussiru annurati pirchì si dici chi apprima, in certi punti di la muntagna, c’era un’erva cu un sucu chi, asciucannu, addiventava tali e quali comu l’oru” Il Ganerale borbonico Francesco Landi, arrivato con i suoi soldati a Calatafimi la notte tra il 12 ed il 13 Maggio 1860, piazzo’ su questo colle dei picchetti di guardia. Sulla cima del Tre Croci una grossa pietra collocatavi nel 1909 da un gruppo di cittadini ricorda ancora il posto dal quale Giuseppe Garibaldi la mattina del 16 Maggio, il giorno dopo la vittoria di Pianto Romano, guidato dai patrioti calatafimesi Antonino Colombo e Pietro Adamo pote’ osservare dall’alto i luoghi e farsi un’idea della via per Palermo.
 
 

Santuario di Campagna di Maria SS. di Giubino
 
A due chilometri circa da Calatafimi, sul versante settentrionale del colle Tre Croci, “su la spianata a mezza costa del monte, dirimpetto alle rovine della antica Segesta”, si erge il Santuario di Maria SS.ma di Giubino, residenza estiva della madonna, uno dei più noti santuari mariani della Sicilia, la cui fama è legata alla memoria del Beato Arcangelo Placenza da Calatafimi (nato nel 1380 e morto nel 1460) trascorse gli anni giovanile da eremita in una grotta del monte stesso. Entrato nel ordine dei frati e trasferitosi ad Alcamo sarebbe anche vissuto in una grotta, presso l’attuale chiesa di s. Maria di Gesù di cui convento è per tradizione, ritenuto fondatore. Il suo corpo si venera in un urna in vetro, situata sull’altare della suddetta chiesa. 
Le origini di questo santuario sono antichissime, e qualche studioso moderno pensa di potere identificare il suo sito con quello di una antica fortezza chiamata “Calatagabuni”, di cui si hanno notizie a partire dalla seconda metà secolo XIV; mentre “i primi documenti dell’esistenza della chiesa li troviamo nell’anno 1495”. 
La tradizione vuole che il trittico marmoreo (la cui Madonna, scolpita da ignoti e detta del” Giubileo”, divenne poi di Giubino) era originariamente collocata in una chiesa nella contrada di “Angimbè”. La leggenda narra che un giorno alcuni contadini, mentre aravano la terra nel bosco di Angimbè, con grande sorpresa, trovarono la bella Madonna. L’avevano nascosta in quel luogo gli antichi cristiani quando gli eretici iconoclasti distruggevano le sacre immagini. La scoperta fece accorrere molta gente da Calatafimi e dalla vicina Alcamo. Ne nacque una contesa, che la Madonna stessa risolse. Messa la sacra Immagine sopra un carro di buoi, questi attraverso il bosco la portarono a Giubino, e là, sulla spianata, si inginocchiarono. La Madonna su quel poggio voleva la sua Chiesa, ed il popolo vi fabbricò il Santuario. Questa graziosa leggenda, piena di poesia, raccolta da storici e documenti ufficiali, si tramanda ancora raccontata dal popolo. 
Grande è stata sempre la devozione che ha nutrito Calatafimi verso la Santissima Vergine divenuta “Patrona del paese” quando nel 1600 a causa di una invasione di cavallette che mise in ginocchio il paese il popolo ormai sconfortato ma pieno di fede rivolse un aiuto al Cielo. Sotto la pressione del momento non seppero decidere quale Santo invocare; il Signore stesso fece la sua scelta. Si decise di fare un bussolo. Per tre volte un bambino estrasse il nome della Madonna di Giubino fra l’incredulità dei presenti l’immagine della Madonna venne smurata e portata in processione verso il paese accompagnata dalle preghiere del popolo. Quando la Sacra Immagine toccò le mura della città si sentì levarsi nell’aria un gran movimento, un turbine di vento spazzò via le cavallette rendendo serena l’area circostante, il popolo allibito cantò inni di laude e ringraziamenti al suo Dio ed alla liberatrice Maria. Così Nostra Signora di Giubino divenne per sempre la Celeste Patrona e la divina Protettrice di Calatafimi. Il popolo ebbe fiducia in lei e la sua speranza non andò confusa. Da allora in città questa Sacra Icona è stata ospitata prima nella chiesa Madre e poi in quella del SS. Crocifisso, fino a quando nel 1907 l’ex chiesa del monastero di S. Caterina divenne il suo santuario di città. Fu in questo santuario che nel 1931 venne finalmente ricomposto e restaurato il trittico. 
Ogni anno la seconda domenica di Luglio il simulacro di Maria SS.ma di Giubino viene condotto in processione nel suo antico santuario di campagna, dove resta fino alla terza Domenica di Settembre. 
Il santuario comprende una piccola chiesa ed un eremitaggio ad essa attiguo, che “tranne lievi recenti modifiche, conservano ancora le antiche e primiere forme”. Semplice e quasi disadorna la chiesetta, con la porta principale a ponente, misura m 17,60 x 5,15. La cappella dell’unico altare ha solo qualche ornamento. Sull’altare, quando non è collocata l’icona marmorea originale, viene esposto un quadro di Maria SS. Di Giubino datato 1779. “Nel senso della lunghezza della chiesa, dal lato di settentrione, vi è un piccolo corridoio largo m.2,50, dal quale si accede a quattro piccole camerette a guisa di celle, per gli antichi eremiti”. Sotto il santuario c’è una piccola grotta, nella quale si tramanda che il Beato Arcangelo “passava le notti orando e flagellandosi”. Viva è ancora la memoria popolare di un antico cipresso, che fino al 1804 si ergeva vicino al santuario, su cui al Beato “compariva la Santissima Vergine con in braccio il suo diletto Infante”.
 
 

Pianto Romano
Visitati i monumenti di Segesta in pochi minuti, percorrendo la statale 113, si giunge al Monumento Ossario di Pianto Romano. Eretto su iniziativa dei cittadini di Calatafimi Segesta su progetto dell’ architetto palermitano Ernesto Basile a custodia delle reliquie dei caduti nella fatidica giornata della battaglia del 15 maggio 1860, che fu decisiva per le sorti della spedizione e dell’ unità nazionale. Inaugurato il 15 maggio 1892 nella 32° ricorrenza del combattimento. Ha una struttura piramidale, alto circa 33 metri, visibile anche a grande distanza, costruito con pietra calcarea di Alcamo. La base quadrata, con mura scarpate orizzontalmente sagomate, si raccorda per mezzo di gradini ad un alto obelisco a conci ornato a metà della sua altezza di una severa corona di bronzo con la Trinacria e due palme. La decorano ai lati due gruppi bronzei di Battista Tassara, dei Mille, raffiguranti lo sbarco di Marsala e la battaglia di Calatafimi. Per la scala che si avanza sul prospetto si sale all’ Ossario, superato il classico ingresso, arco etrusco fra due pilastri che sostengono il frontone dorico, si entra nel sacrario che custodisce in due grandi custodie le reliquie dei Caduti: garibaldini e borbonici. Alla fine del viale dei cipressi, Viale della Rimembranza, il 15 maggio 1960 è stata posta una stele, regalo della Regione Siciliana in occasione del centenario del combattimento, in essa sono scritte le famose parole che Garibaldi disse a Nino Bixio:”Qui si fa l’ italia o si muore”.
 

 
 
 
Segesta
Segesta è la più importante delle città elime. La sua posizione è estremamente suggestiva poichè essa si trova adagiata su un sistema collinare che assume variegate fogge, abbellite dall'inserimento dei suoi monumenti principali: il teatro ed il tempio. 
La leggenda dice che fu fondata dagli scampati alla guerra di Troia guidati da Enea, il quale, prima di approdare a Roma, vi lasciò una cospicua colonia di suoi concittadini, tra i quali il vecchio padre. Leggenda a parte, la ricerca archeologica ancora agli inizi non ha verificato con chiarezza l'esistenza di chiari legami culturali fra questa città ed il mondo elimo in generale, e alcune aree dell'Asia Minore. Gli Elimi furono, comunque, un popolo estremamente raffinato e per questo soggetto agli influssi dominanti della cultura greca siceliota, ma non in posizione subalterna, come tutte le popolazioni cosiddette indigene della Sicilia.Gli Elimi mantennero rapporti con le civiltà limitrofe, ma cercando di avere sempre una autonomia che li portò a contrastare con i Greci in alleanza con i Punici e con questi ultimi in alleanza con Roma. 
Segesta ben presto divenne una potente città che ebbe, pertanto, un rapporto quasi sempre conflittuale con Selinunte, forse anche per le rispettive posizioni geografiche contraddittorie. Fu per questa sua posizione politico-militare che ebbe rapporti quasi sempre amichevoli con i Punici. Ma, molto saggiamente, intuendo la nascente potenza romana, passò prestissimo dalla parte dei Romani, nel 260 a.C.. Fu grazie a questa mossa politica ed in nome delle comuni origini troiane che i Romani la esentarono dal pagamento di tributi e le diedero, inoltre, una certa autonomia politica e di controllo territoriale.
Gli elementi più significativi di Segesta sono il teatro, il tempio ed il santuario di contrada Mango. Essi rappresentano ovviamente le funzioni del culto, delle rappresentazioni e della politica. 
Delle altre componenti della città si conoscono le mura con l’articolata Porta di Valle, alcuni quartieri residenziali e alcuni monumenti pertinenti Segesta medievale (mura, castello, moschea e borgo sommitale)
Il teatro fu costruito o intorno alla metà del IV o nel II sec.a.C. (vi sono due teorie al proposito) in quel punto per le intrinseche qualità panoramiche dell'area cacuminale del monte Barbaro. Nel sito del teatro si trovava una grotta con materiale dell'età del bronzo, successivamente inglobata nella costruzione. E' curioso notare che lo stesso fenomeno sia avvenuto in occasione della costruzione del teatro di Siracusa. E' ovvio che le maestranze e gli ideatori del teatro di Segesta erano di ambiente ellenico data la canonicità del progetto. Si tratta di uno dei più riusciti esempi di architettura teatrale collocabile nel passaggio dal tipo greco a quello romano. La cavea era in parte scavata nella roccia, in parte costruita con un poderoso muro di contenimento.E' logico supporre che, malgrado il teatro si trovasse in una città non greca, esso doveva avere quelle funzioni e quel ruolo nella città quasi identico a quello che un analogo monumento aveva nelle città greche. Fu sempre visibile nel paesaggio. Fu parzialmente scavato agli inizi del secolo e recentemente restaurato. E' oggi parte della zona archeologica visitabile di Segesta e viene periodicamente utilizzato per rappresentazioni teatrali.
Il tempio, di tipo dorico, sorgeva in una suggestiva posizione extra-urbana, su un poggio ben visibile anche da lontano. La sua struttura lievemente diversa dai templi greci canonici, l'assenza di ogni struttura interna (cella, adyton etc.) e il suo essere in una città non greca, hanno generato un dibattito acceso fra gli studiosi. Alcuni pensano che si tratti di un prodotto di tipo greco per un culto greco. In tal senso le anomalie riscontrate non avrebbero alcun peso e la cella, al suo interno, sarebbe stata indiziata al livello di fondazioni essendo, per questi studiosi, il tempio un'opera non finita. Altri, invece, dicono che si tratta di un semplice recinto sacro a cielo aperto per un culto non greco. La mancanza di cella e tetto sarebbero fattori conseguenti all'adozione di un modello greco soltanto nel suo aspetto esteriore e formale. Sarebbe logico pensare che la vicinanza delle città greca, prima fra tutti Selinunte, abbia generato l'idea di costruire un grande e vistoso edificio templare alla maniera greca, ma adattandolo alle proprie esigenze di culto ed alla propria cultura.
Qualunque sia stata l'organizzazione interna del tempio ed il tipo di culto praticato, è chiaro che la sua funzione preminente era quella religiosa. Purtuttavia, data la suggestione del luogo e l'ampio respiro dell'area nella quale sorge il tempio, è ovvio pensare che tutta la zona fosse un punto nodale nella struttura urbana di Segesta e nei suoi percorsi. Fu costruito alla fine del V sec.a.C. Seguì le vicissitudini della città non subendo, però, alcuna distruzione vistosa. E' uno dei rari esempi di templi dorici che non sono mai crollati. Esso è rimasto attraverso i secoli un elemento insito nel paesaggio, al pari degli elementi naturali circostanti. Soltanto di recente sono stati effettuati restauri e consolidamenti della pietra che l'erosione aveva intaccato. E' oggi una delle maggiori attrattive della zona archeologica di Segesta e dell'intera Sicilia.
Il santuario di contrada Mango fuori le mura doveva essere stato realizzato nel VI sec.a.C. Non sappiamo se la logica che guidò i Segestani a costruire il santuario in questione fosse stata la stessa che spingeva i Greci a costruire estese aree sacre al di fuori delle mura. Il santuario è di proporzioni notevoli. Un muro di temenos racchiude una vasta area entro la quale dovevano esistere più edifici indiziati da numerosi elementi architettonici quali capitelli, colonne etc. Purtroppo lo scavo che lo ha messo in luce non è che agli inizi sicchè è prematura qualsiasi considerazione comparativa. Non sappiamo nulla sulla destinazione cultuale del santuario.
Sempre pertinenti la città ellenistico-romana sono l’agorà ed un’edificio abitativo di grande pregio definito la “casa del navarca” per le decorazioni a prora di nave scolpite sui fianchi di un elegante peristilio.
Pertinenti la fase medievale dell’occupazione dell’area sono, oltre ai rifacimenti delle mura di cinta, il castello medievale annesso al teatro, le due chiese di epoca normanna e post-medievale, il quartiere medievale e la moschea.
 
 

Calatabarbaro
Le indagini archeologiche hanno rivelato che la Segesta classica si spense lentamente e fu definitivamente abbandonata nel VI secolo d.C.; agli inizi del secolo XII la sua acropoli settentrionale si ripopolò e vi sorse un villaggio musulmano, denominato Calatabarbaro (in arabo “Castello del Berbero”). Di questo insediamento fanno parte i resti di una moschea; l’unica di quel periodo finora rinvenuta in Sicilia. A questa fase medievale di parziale ripopolamento di Segesta, appartengono anche i resti sull'acropoli nord di un castello del XII secolo e di una chiesa normanna. Intorno al secolo XIII, sia il castello che il villaggio di Calatabarbaro, furono abbandonati definitivamente. I reperti del periodo “medievale” di Segesta, furono destinati ad essere esposti nel Museo Civico Archeologico di Calatafimi in via Tiro a Segno. La conquista islamica del IX secolo non comportò rotture traumatiche nella dislocazione dell’insediamento. La valle del fiume Freddo continuò ad essere sede privilegiata dell’insediamento attraverso piccoli nuclei non protetti, tra i quali il casale "rahal" di Contrada Arcauso, anche quando tra la fine del X e l’XI secolo si svilupparono gli abitati musulmani sulle alture di Calatafimi e di Calathamet, quest’ultimo, probabilmente, sede del capoluogo di distretto islamico. Quando i Normanni invasero la Sicilia, nel secolo successivo, trovarono un territorio completamente islamizzato e si insediarono pertanto nelle località strategicamente più importanti, occupando a loro volta Calathamet, dove costruirono un castello feudale e una chiesa. I musulmani tornarono ad abitare l’altura di Segesta, abbandonata da secoli, che diventò, con il nome di Calatabarbaro, il polo antagonista ai siti fortificati normanni. Nella seconda metà del XII secolo l’abitato islamico si ingrandì al punto di occupare le due cime del Monte Barbaro, dotandosi anche di una grande moschea congregazionale. Mentre Calathamet declinava e i villaggi nel fondovalle venivano abbandonati, tra la fine del XII e il XIII secolo i contadini musulmani di Calatabarbaro, ribelli al dominio normanno, convissero con la feudalità usurpatrice sveva, la quale costruì a sua volta sulla cima del monte una dimora signorile e una chiesa cristiana. In età sveva l’insediamento rimase ancora polarizzato tra Segesta/Calatabarbaro e Calatafimi, munito di fortificazioni nella zona di massima quota. Intorno alla metà del XIII secolo Segesta subì una fine violenta che sancì la definitiva cancellazione dell’elemento islamico anche in questa zona della Sicilia. L'unico centro che continuò a prosperare fino ai giorni nostri fu Calatafimi.
 
 

Calathamet
Luogo di confine settentrionale del territorio di Calatafimi si trovano le sorgenti temali dette "Bagni Segestani", presso le quali vuole il mito che Eracle, che conduceva i buoi di Gerione, si sia fermato a ristorarsi.
Su di un pianoro in cima alla collina, che a strapiombo sovrasta le terme si trovano i resti del castello e del villaggio di Calathamet (in arabo "Catello dei Bagni"). Fu questo uno dei tre insediamenti che nel Medioevo, insieme a Calatafimi e a Calatabarbaro, sopravvisero a Segesta ed accolsero la popolazione che viveva nel suo territorio. Fra i tre centri abitati fu per qualche tempo quello prevalente, tanto da essere l'unico citato nel diploma con il quale nel 1093 viene istituita la Diocesi di Mazara. Gli scavi archeologici hanno portato alla luce i resti medievali di un villaggio, di un castello e di una chiesa a una navata intitolata a Santa Maria. Sembra che l'insediamento di Calathamet sia entrato in crisi nel XIII secolo, periodo segnato dalle rivolte dei musulmani siciliani contro il potere normanno.

Bosco di Calatafimi
Costituito da diversi lembi residui di una ben più vasta sughereta autoctona che un tempo doveva rivestire superfici straordinariamente ampie, il Bosco di Angimbè si distende a nordest dell’abitato di Calatafimi Segesta, in direzione della strada statale 113. L’itinerario proposto attraversa per intero la zona interessata - vasta ben 133 ettari - e consente, con opportune deviazioni, di inoltrarsi nelle aree più fittamente boscate e impreziosite da un lussureggiante sottobosco. Sono, questi ultimi, i luoghi tra i piu’ belli e naturalisticamente tra i piu’ importanti dell’intero comprensorio calatafimese. Ormai rarissime in Sicilia, le foreste sempreverdi, caratteristiche dell’orizzonte mediterraneo, costituiscono un ambiente ricco di fascino non solo per le specie arboree che vi dominano – la Quercia da sughero e il Leccio, su tutte – ma anche per la straordinaria ricchezza di arbusti ed erbacee che compaiono nel sottobosco. E’ tuttavia in primavera che questo ambiente apparira’ in tutto il suo splendore; quando cioè, sotto la chioma dei maestosi alberi e nelle ampie radure, fiori di ogni dimensione e colore punteggeranno il paesaggio. Ci si soffermi, allora, ad ammirare le delicate e profumate infiorescenze bianche dell’Erica arborea, un arbusto sempreverde a portamento eretto e densamente ramificato; i grandi fiori, rossi e bianchi, di un’altro arbusto, il Cisto; ancora, quelli dorati delle varie specie di Ginestre, quelle, bianchissimi dell’Asfodelo, quelli porporini della Cicerchia, e ancora dell’Anemone, delle diverse Euforbie, delle tante orchideacee. Per raggiungere questo eccezionale biotopo, si imbocca la pista in terra battuta che si diparte dalla circonvallazione nord di Calatafimi Segesta, snodandosi a mezza costa sulle pendici di Monte Tre Croci, aprendo a destra un’ampia veduta sul rigoglioso Monte Bonifato di Alcamo, sull’ampia vallata che degrada verso Gibellina e Camporeale e, di fronte, sulla sughereta di Angimbè. Lungo questo primo tratto, ancora fortemente antropizzato, la vegetazione naturale è costituita da taluni arbusti e da qualche maestoso, isolato Carrubo. Lasciato dopo circa 1,5 km un sentiero sulla sinistra che discende sino alla Stazione di Calatafimi (utile per quanti raggiungessero la cittadina in treno), si procede in leggera salita mentre il paesaggio si fa ancora più ampio e suggestivo: a sinistra compaiono, infatti, il versante sudest di Monte Barbaro, al cui piede è il Santuario di Mango, e più indietro il Monte Pispisa; alle spalle, il rilievo del Santuario del Giubino, sovrastato dal verdeggiante Monte Tre Croci. 
Al km 1,7, sulla destra, si incontra (chiuso da un cancello che impedisce il solo traffico veicolare privato) un primo sentiero, segnalato, che si addentra nel bosco; la pista principale procede, invece, aggirando le pendici di un rigoglioso rilievo e, a sua volta, si inoltra brevemente in un altro bel lembo, assolutamente integro di sughereta. Quindi, diradandosi il querceto, compaiono a sinistra i massicci di Monte Inici e Monte Barbaro e tra questi, molto più distante, Monte Sparagio, il più alto dei rilievi presenti nel territorio trapanese (1110 m s.l.m.). Lasciato sulla sinistra, al chilometro 2,1, un sentiero che discende sino alla SS 113, procedendo ancora in salita si perviene ad un punto ove ancora più ampio si fa il paesaggio, potendosi abbracciare anche gli altri rilievi che delimitano da ovest il territorio di Calatafimi Segesta: Monte Pispisa, Monte Fontanelle, Monte Bernardo, Montagna Grande, Monte Domingo. Poco dopo (km 2,4) sulle destra, si incontra un altro ingresso al Bosco di Amgimbè e, cento metri più avanti, si abbandona la pista principale per imboccare a sinistra uno stretto sentiero, ancora in salita; si procede, aggirando da est le pendici di Pizzo del Bosco (430 m s.l.m.), sino al km 3,1 ove ad un bivio, piegando a destra, inizia la discesa verso la statale 113. Dopo aver attraversato (km 3,7) una zona rimboschita, si lascia sulla sinistra (km 4,0) la pista che conduce alla torretta della Forestale (raggiungibile a piedi o in bicicletta) e ci si inoltra (km 4,5) nuovamente nel querceto, in una zona tra le più antiche e fitte, sino a raggiungere (km 4,7) l’ingresso nord del bosco (a destra), alle pendici del rigoglioso Poggio Fagotto (322 m s.l.m.). Dopo un ultimo breve tratto – dominato ancora da nordovest dall’aspro Monte Inici con il sottostante, splendido Golfo di Castellammare e, più vicino, dal rilievo di Calathamet – si raggiunge infine (km 6,4) la statale 113, in prossimità del Baglio Villa Tasca. Da qui, svoltando a sinistra, si può rientrare a Calatafimi Segesta (km 8,7 circa) – lungo un tratto di strada di grande interesse paesaggistico che si snoda parallelamente al corso del Fiume Kàggera – ovvero, piegando a destra, è possibile proseguire verso le Terme Segestane.
 



 


torna all'inizio del contenuto